
“LA SIMEIDE. UNA LOTTA VINCENTE”. Sì, ma a che prezzo? In questi giorni che si è aperta la crisi alla #Caterpillar di Jesi, m’è capitato d’avere avuto alcune conversazioni private nelle quali, è ovvio, riemerge il paragone con la storica Sima, di cui lo stabilimento attuale di via Roncaglia è la diretta continuità. M’è stato chiesto, essendo io l’autore di quel libro, quali sono secondo me le differenze e le somiglianze, e non è mancata nemmeno la battuta sugli operai di una volta, che quelli sì… Sì, è anche vero che durante il lontano “autunno caldo” la parola Operaio si scriveva con la maiuscola, ma non furono certo tutte rose e viole, e forse anche quel sottotitolo al mio libro, “Una lotta vincente”, più che doveroso perché furono davvero gli operai e i dipendenti tutti, con la loro lotta, e insieme a loro la città, a vincere e salvare l’azienda, assicurandone la continuità produttiva. Io però non auguro agli operai della Caterpillar di vincere in quello stesso modo.
Ho chiamato il libro Simeide perché fu un’epopea, ma l’epica resta soltanto un modo di raccontare, arriva dopo, quando sappiamo già come è andata a finire. Il difficile è raccontarlo prima, cioè costruirlo quell’esito. Nel libro cerco di immaginare le scelte di lotta degli operai giorno per giorno, seguendoli io stesso nel racconto attraverso quello che loro stessi scrivevano sul momento, sui loro volantini e comunicati, quando davanti a loro era ancora tutto incerto e ogni scelta poteva aprire chissà quali strade, oppure chiuderle.
La Simeide è come l’Iliade e l’Odissea sommate insieme, anche nella durata, durò venti anni, ma alla Sima la fase “guerreggiata” fu anche più lunga, ci vollero ben 12 anni per arrivare nel 1989 (dopo occupazioni, commissariamenti, girandole di imprenditori improvvisati che fiutavano solo l’affare dei contrbuti pubblici) all’accordo che consentiva la ripartenza, con la “Nuova Sima” che acquistava gli impianti e riassumeva gli operai dopo la loro liquidazione della loro “vecchia” Sima, per proseguirne la stessa produzione.
Non auguro di sicuro agli operai CAT (chissà perché in questi giorni sto iniziando a immaginarli un po’ come i gatti nella notte: solo loro possono immaginare ciò che troveranno davanti in questa notte che si è aperta) di impiegare anche loro 12 anni, di dover resistere così tanto. Furono 12 anni di cassa integrazione pagata con messi di ritardo, di denunce e processi quando erano costretti a fermare i treni o a sequestrare i tecnici del gas che andavano a interrompere le forniture, bloccando definitivamente la produzione, e così via (“Mica lo sapevamo se saltavamo tutti in aria”, mi raccontava l’operaio che si trovò a girare quella manopola del gas che io immagino grande come il volante di un camion). Poi sì, una volta ci fu anche un pretore che disse: “Non è reato lottare per il posto di lavoro”, ma erano eccezioni, non accadevano così spesso (e comunque, questo sì, era forse anche il segno dei tempi, di un’altra cultura).
Non gli auguro 12 anni di lotta. Poi ci fu anche “l’Odissea”, cioè il ritorno a casa, le riassunzioni alla Nuova Sima, ma non furono per tutti, un centinaio rimasero fuori nonostante l’accordo, fecero un comitato, “dei senza fabbrica” furono chiamati, e la casa a cui tornare se la dovettero cercare da un altra parte. L’ultimo “senza fabbrica” fu ricollocato 8 anni dopo e solo allora il loro portavoce, Cesare Tittarelli (che era stato il penultimo, appena pochi giorni prima), dichiarò sciolto il Comitato per aver terminato il proprio mandato; un Comitato che oltre ad essere uno strumento di lotta era stato anche una “cassa di compensazione” di tante amarezze, sostenendosi insieme tra loro. La ricollocazione dell’ultimo cassaintegrato coincise anche con la fine della fase intermedia, quella della “Nuova Sima”, con il passaggio alla Caterpillar, e sembrò che dovesse nascere una nuova storia, separata dalla precedente.
Io “la storia” della Sima l’ho definita nel libro una lotta vincente, includendo anche loro, i “senza fabbrica”, perché non hanno mai mollato, nonostante la divisione che purtroppo s’era anche creata. Dopo che erano stati privati del ritorno a casa, mi sembrava eccessivo privarli anche del merito della vittoria alla quale avevano contribuito in prima persona, per uno stabilimento che non chiudeva e una produzione che restava viva e qui in città.Una vittoria con il retrogusto amaro, la definisco, ma per questo ancora più piena e veramente di tutti.
Una vittoria che costò un prezzo molto alto, sacrifici enormi, e che a molti di loro sottrasse un ampio arco della vita lavorativa. Certo, poi, giustamente diventa racconto ed epica, emergono perfino gli aneddoti, i momenti divertenti (quando in una delle tante “gite romane” capitarono ad un ricevimento organizzato non per loro ma, già che c’erano, come cavallette spazzolarono via tutto ciò che c’era sui vassoi), o quelli significativi e carichi di forte sentimento, come quando si trovavano lì insieme in mezzo ai binari e all’arrivo della telefonata da Roma che annunciava l’accordo, loro per scaricare l’enorme gioia, e tensione, afferrano il Sindaco, che era lì con loro, e lo lanciano in aria per festeggiare.
Non si augura a nessuno di passare quello che hanno passato gli operai della Sima, sostenendo un costo così duro. Semmai è il contrario, è proprio perché lo si deve a loro questo stabilimento che è un pezzo dell’identità di questa città, che va salvato di nuovo, perché il prezzo è stato già pagato e ora c’è solo da rispettarlo. Quel prezzo, gli operai della Sima lo hanno già pagato, non solo per loro ma anche per il futuro di questa realtà.
Oggi rispetto ad allora tutto è diverso, non ci sono paragoni; è come un fiume, dove ciò che resta uguale è soltanto il suo scorrere, come il conflitto di classe (termine obsoleto, che si usava normalmente al tempo degli operai con l’iniziale maiuscola) che pur in forme diverse continua a manifestarsi ogni volta che il “profitto” entra in conflitto con i “salari”. Le forme cambiano. Al tempo della crisi della Sima la Proprietà era ben individuabile fisicamente, aveva un nome e un cognome (finì anche sotto processo), il fine era esasperare il profitto e per questo mise in crisi finanziaria l’azienda pur avendo un prodotto di qualità e leader sul mercato europeo; gli operai posero fin dall’inizio l’obiettivo (per nulla rivoluzionario ma molto pragmatico) che per una volta era meglio che anziché gli operai ad andarsene fosse “la Proprietà”, e ci vollero 12 anni per avere un nuovo imprenditore con un piano industriale rispettoso di quella storia e di quella professionalità operaia.
Oggi nel mondo della globalizzazione finanziaria le proprietà sono molto più eteree, non si è nemmeno più sicuri che esistano davvero o che siano loro a scegliere anziché metafisici algoritmi, sono impalpabili, azionariati diffusi tra fondi a loro volta combinazioni di altri fondi, e gli andamenti dei mercati finanziari ne “dettano” i rendimenti, senza curarsene, ancora una volta, della effettiva qualità del prodotto, e di qualsiasi altra cosa, dall’importanza che questa storia ha per la comunità locale alla sorte delle 260 famiglie più tutte le altre interessate dalle lavorazioni dell’indotto. Ma al di là di tutto, forse è sempre lo stesso problema, pragmatico, di avere un imprenditore legato alla qualità del prodotto e alle sorti della comunità locale. Non vado avanti su questo, non ne so nulla dei dettagli della situazione attuale, dipende dagli operai saper valutare, approfondire, individuare le vie d’uscita e portarle avanti con la massima autonomia e determinatezza, scovando ogni volta le vie giuste (“Non sapevamo più che cosa inventarci” è un’altra delle frasi importanti che ho ascoltato dagli operai di allora), e a chi sta attorno, alla “comunità locale” (che a dire il vero è un concetto molto complesso), aspetta di dare tutta la propria solidarietà, purché sia attiva e non compassione. Ma non è semplice e scontato averne consapevolezza.
